Povertà alimentare. Oltre il bisogno materiale

Intervista a Roberto Sensi, responsabile dei programmi contro la povertà alimentare di ActionAid Italia.

di Monica Palladino

     Fotogramma dal film: "I, Daniel Blake" di Ken Loach

A partire dalla considerazione che il cibo è un diritto e non solamente un bisogno, il rapporto di ActionAid “La fame non raccontata” si sviluppa attorno ad un quadro concettuale che definisce la povertà alimentare come un fenomeno multidimensionale che investe adeguatezza nutrizionale, dimensione sociale, aspetti psicologici ed emozionali, accessibilità economica, adeguatezza culturale e utilizzabilità. Attraverso un’indagine qualitativa condotta nella città metropolitana di Milano e che ha coinvolto più di 50 persone,  sia italiane che di origine straniera, lo studio ha cercato di comprendere le articolate forme che assume il fenomeno della povertà alimentare oggi in Italia. Il Covid non ha di certo aiutato, anzi: guardando allo spaccato di società incontrato nel corso dell’indagine, quanto emerge è che si tratta di famiglie che – magari anche a seguito della pandemia – sono entrate in una condizione di sofferenza e di difficoltà economiche, che però sta diventando strutturale. La risposta delle istituzioni pubbliche alle vecchie e nuove forme di povertà alimentare in Italia, sembra non essere del tutto adeguata. 
Ne parliamo con Roberto Sensi, responsabile dei programmi contro la povertà alimentare di ActionAid Italia.

1. Roberto, cosa c’è dietro e oltre il bisogno materiale di cibo,  nella vita delle persone che oggi si recano presso un centro di assistenza alimentare? 

I risultati del nostro studio mettono in evidenza come le dimensioni sociale e psico-emozionale siano forse l'aspetto di maggior rilevanza. Si tratta di dimensioni immateriali che sembrano avere maggior impatto sulla vita delle persone coinvolte nell’indagine, rispetto al problema  puramente materiale di non avere abbastanza cibo. L’analisi multidimensionale mostra come, in realtà, per famiglie che si trovano senza lavoro, il tema “cibo” diventa un elemento di fortissimo stress, a volte più della mancanza stessa di lavoro. Procurarsi il cibo è una dimensione talmente pregnante dell'esistenza delle persone che alla fine, seppur in termini puramente economici non sia l'emergenza più importante, in termini di qualità della vita e di benessere incide tantissimo. Quelle che si rivolgono ai centri sono famiglie multiproblematiche, dove la mancanza di accesso materiale al cibo a volte non è la preoccupazione principale, anche perché sappiamo che soluzioni per mangiare poi si trovano, magari più facilmente che per pagare l'affitto o le bollette. Però, se poi vai a scavare, vai a cercare dietro, ti rendi conto che effettivamente quell'elemento è una questione fondamentale di dignità, nel senso che è proprio lì che si spacca la dignità: quando non puoi scegliere, quando non riesci a portare cibo a casa, e non soltanto quando non hai lavoro, quando non sei realizzato socialmente. Quindi il cibo, in realtà, anche se non materialmente, immaterialmente muove un sacco di aspetti che sono comunque rilevanti. Allora, per noi l’accesso al cibo diventa un modo di indagare le condizioni di queste famiglie con un approccio che definiamo essere basato sui diritti, cioè nel senso di considerare che la casa, il lavoro, la salute, l’educazione, sono diritti fondamentali tanto quanto il cibo, e che è l'interrelazione fra questi diritti a determinare la condizione di deprivazione, violazione, sofferenza che hanno queste famiglie. L’obiettivo quindi non è tanto sottolineare, ad esempio, quanto la mancanza materiale di cibo sia un'emergenza; vogliamo però sottolineare quanto il cibo rappresenti un elemento fondamentale all'interno di interventi che guardino al rispetto dei diritti di queste persone.

2. La pandemia ha di certo acuito il problema della povertà alimentare. Quali sono state le risposte del Governo sia prima che durante l’emergenza sociale generata dal Covid? E, secondo te, sono state adeguate? Cosa pensi, per esempio, dei “buoni spesa”? Semplicemente redistribuire le eccedenze alimentari può essere una soluzione al problema della povertà alimentare in Italia?

Oggi in Italia non esiste un'efficace politica di contrasto alla povertà alimentare. Le ragioni sono diverse e, legandomi alla seconda parte della tua domanda (quella riguardo le eccedenze), il problema è che lì c'è un approccio esclusivamente materiale, quantitativo, nel senso che la risposta è una risposta “distributiva” ma non “redistributiva”. Si distribuisce il cibo in eccedenza, ma non si redistribuisce la ricchezza, ecco. Quindi questa risposta è inefficace perché si risponde a un bisogno, ma non al problema fondamentale che è la violazione di un diritto. È inefficace;  è evidente che questo modello di intervento non agisce sulle cause profonde dell'insicurezza alimentare, della povertà alimentare. Il motivo, e qui noi lo diciamo un po’ come una provocazione, è che negli ultimi trent'anni c’è stata una deresponsabilizzazione rispetto alle politiche del cibo, delle istituzioni pubbliche rispetto al problema della povertà alimentare. Non soltanto si è esternalizzato l'intervento di assistenza sociale, affidandolo al terzo settore, ma c'è stato proprio un arretramento rispetto alle politiche di salvaguardia dell’accesso al cibo da parte dei cittadini. Oggi non ci sono misure veramente strutturali, e il motivo per cui non ci sono misure strutturali è che, forse, manca una effettiva comprensione adeguata della portata del fenomeno della povertà alimentare. Da questo punto di vista, quindi, il fatto di intervenire sulla componente materiale, semplicemente gestendo le eccedenze, è un modello di deresponsabilizzazione delle istituzioni che si limitano a mettere a disposizione le risorse per gli acquisti pubblici, ma non affrontano il problema all’origine. La legge Gadda [1], ad esempio, è un modo di ridurre il costo ambientale dei rifiuti, non quello di intervenire sull'accesso al cibo delle famiglie. 

3. di rifiuti in che senso?

…di eccedenze alimentari che se non consumate diventerebbero rifiuti. Il win-win game (un gioco in cui vince la solidarietà e vince l'ambiente) è quello per cui io stabilisco delle normative, anche fiscali, che facilitino la redistribuzione delle eccedenze e quindi le ridistribuisco prima che diventino rifiuti, perché se diventano rifiuti c’è poi un costo ambientale, anche economico, che comunque lo Stato dovrebbe sostenere. Però noi diciamo: Non si fa solidarietà alimentare attraverso politiche di riduzione dello spreco alimentare, o meglio… non è questa la strada per vere politiche di lotta alla povertà alimentare. Poi, che le filiere di assistenza alimentare oggi si basino prevalentemente su questo modello, e che quindi noi ci dobbiamo fare i conti, resta un fatto. Se oggi venissero meno le eccedenze che arrivano dai supermercati, sarebbe un grosso problema per il sistema di assistenza alimentare, che entrerebbe in grossa sofferenza soprattutto, paradossalmente, per il fresco, perché è soprattutto il fresco viene dai supermercati. Dal Banco Alimentare sì, qualcosa ogni tanto arriva, ma non è un'offerta costante. 
Quindi il problema resta che oggi in Italia non c'è una politica efficace di contrasto alla povertà alimentare. 

4. Quale sarebbe invece, una politica di contrasto efficace? 

Il tema delle politiche di contrasto passa inevitabilmente dalla riflessione sulle misure di sostegno al reddito. Non si può parlare di contrasto alla povertà alimentare se non si apre questa partita più ampia delle misure efficaci di contrasto alla povertà più in generale e degli ammortizzatori sociali. I buoni spesa [2], ad esempio, erano uno strumento sulla carta interessante prima di tutto perché erano risorse, vincolate certo, ma comunque risorse economiche date direttamente alle famiglie. Era una misura che metteva un tappo a coprire la falla creata da un'emergenza per la quale si aspettavano altre misure, come per esempio la cassa integrazione, il reddito di emergenza, i famosi 600 euro per le partite IVA ed altro. Il problema però è che quella misura, di fatto, non aveva come target la popolazione effettiva che soffre di mancanza di accesso al cibo, ma era una misura che mirava a intervenire sui bisogni materiali, fondamentali, di una certa fascia di popolazione che,  a causa del lockdown, era improvvisamente caduta in sofferenza, ma trascurava tutti coloro che in quella condizione si trovavano magari già prima della pandemia. Il secondo elemento del buono spesa che non funzionava – e che ci fa dire che, pur essendo uno strumento interessante, non è la risposta adeguata – è il fatto che poi, nella sua evoluzione, è diventato di fatto uno strumento di sostegno al reddito più complessivo, nel senso che col terzo decreto, ora i buoni spesa si possono usare per pagare anche bollette e affitti, per esempio. Quindi  è diventata una misura non finalizzata esclusivamente al cibo. Inoltre, il modo in cui viene amministrato presenta un criterio escludente inaccettabile, che è quello della residenza. Seppur giustificato dal fatto che le risorse non erano infinite e che bisognava intervenire sulla popolazione dei comuni, richiedere il possesso della residenza come criterio di selezione ha sicuramente svantaggiato tutta una fascia di popolazione, soprattutto anche quella straniera o italiana non residente nei comuni, che spesso è proprio quella che ne avrebbe più bisogno. 

5. …e che quindi, viene esclusa dalla misura 

Esatto, resta una misura discriminante che quindi non può essere considerato un modello efficace. Bisogna anche dire però che un conto sono i criteri specifici che vengono definiti per le erogazioni, e un conto è lo strumento in sé. Noi diciamo che ci sono molti limiti quali i target, le modalità di erogazione, i criteri escludenti, la questione del reddito, eccetera, ma quello dei buoni spesa resta uno strumento di per sé interessante, per cui non vanno liquidati, però bisognerebbe assolutamente rivedere tutte quelle modalità di erogazione discriminanti, il modo di implementazione, e l’ammontare di risorse complessive stanziate. Un limite grosso, per esempio, è stato che lo hanno implementato Comuni che non l'avevano mai fatto prima, e la maggioranza di essi ha fatto di tutto per erogare i buoni il più velocemente possibile, ma senza coordinarsi con le associazioni già operanti sul territorio nel campo dell’assistenza alimentare. Non hanno fatto “sistema”. 

6. Mi ha colpito un'affermazione che tu fai nel rapporto, sul riportare al centro la persona e non il suo bisogno. Mi fa pensare a un andare oltre la carità e l’assistenza. Cosa puoi dirci di più rispetto a questa affermazione, che mi sembra importante.

Sì, allora sul tema riportare al centro la persona, che spesso sembra quasi sbagliato come viene formulato: di solito si dice “riportiamo i bisogni delle persone al centro delle politiche”. Invece, secondo me, il tema è riportare al centro la persona, e non il suo bisogno. Si tratta proprio di vedere la povertà come la violazione di un diritto umano, per cui anche l’accesso al cibo diventa un diritto e non è più un semplice bisogno materiale per la sopravvivenza. Da questa prospettiva, allora, è chiaro che poi le misure necessarie devono essere misure molto più strutturali. E allora (e faccio un piccolo passo indietro, per ritornare sul tema delle politiche) è chiaro che se io intervengo sul bisogno e non sul diritto, anche la misura di intervento diventa una misura più contenuta, che magari ammortizzo ulteriormente in termini di costi, lavorando sullo smaltimento delle eccedenze, ma che, se ci pensi, sembra proprio un atteggiamento cinico. Alla fine… è tutto bellissimo, fai solidarietà e smaltisci le eccedenze, favorisci gli operatori della filiera e proteggi l’ambiente,  ma dove sono poi i poveri, in tutto questo?… Ecco, sembra quasi cinico come approccio. 
Invece, riportare i diritti delle persone – di tutte le persone – al centro vuol dire poi appunto che ci devono per forza essere politiche strutturali, perché le istituzioni devono garantire questi diritti. Il vero contrasto alla povertà alimentare passa attraverso l'assistenza alimentare? La risposta ovviamente è no. Un vero contrasto alla povertà alimentare deve essere un modello più ampio, che non esclude il fatto che possa essere ancora necessario un sistema di assistenza alimentare, ma che cerca di intervenire a monte, affinché l'assistenza alimentare diventi solo uno strumento di emergenza transitorio e a tempo, ecco. 

7. In mancanza di una adeguata risposta da parte del settore pubblico, chi risponde di fatto al problema della povertà alimentare in Italia? E, soprattutto, mi chiedo, come? Secondo te gli enti assistenziali rispondono a questa esigenza di riportare al centro la persona? Cioè si riesce ad andare oltre l'assistenza, oltre la carità, oppure no? 

Secondo me la risposta è: sì e no. Sì, nel senso che sicuramente c'è la consapevolezza da parte di chi fa assistenza che si può lavorare molto, qualificando l'intervento, complementandolo con altre misure, facendo rete, diventando cioè anche un attore politico territoriale. Ma no, perché poi spesso ci si limita a gestire la distribuzione e a fornire assistenza quando viene richiesto, ma non si mettono in discussione le politiche. Questo è un altro grande nodo. Gli enti di assistenza, spesso, non pensano alla povertà alimentare come un elemento a partire dal quale si debbano interrogare le politiche. Quindi di fatto sono un po’, come dire, agenti all'interno di un sistema che gli attribuisce un ruolo, legittimato anche delle istituzioni, ma poi non interrogano troppo quelle stesse istituzioni che, in parte, sono responsabili del problema. Almeno non lo fanno su questo tema. C'è una questione, secondo me fondamentale, nel profilo dell'ente tradizionale di assistenza alimentare. Prevale comunque un approccio assistenzialista, che non viene necessariamente superato anche dai modelli di intervento che prestano maggiore attenzione alla dignità della persona  che chiede aiuto. Quindi, la risposta è: sì e no, nel senso che certi aspetti sono comunque considerati dalle associazioni e c'è consapevolezza del fatto che bisognerebbe fare qualcosa di più. Altri aspetti invece faticano  di più emergere, come ad esempio questo aspetto del dialogo istituzionale. È  fondamentale dialogare con le istituzioni in termini più, non ti dico conflittuali, però certamente di advocacy, ecco. 

Sembra, quindi, che serva un approccio che metta ordine in un contesto frammentato, per esempio che metta in rete tutte le associazioni operanti sui territori, che proponga modelli innovativi di intervento con al centro le persone e i loro diritti, e che dialoghi in maniera costruttiva con le istituzioni pubbliche. Rispondere al solo bisogno materiale non è la soluzione.

(intervista da me realizzata a dicembre 2021)

[1] La Legge Gadda contro lo spreco alimentare (Legge 19 agosto 2016 n. 166), ha riorganizzato il quadro normativo che regola le donazioni alimentari, introducendo misure di semplificazione al fine di incentivare le donazioni da parte degli operatori del settore alimentare, agricolo e agro-alimentare e stabilendo come priorità il recupero di cibo da donare alle persone in difficoltà economica e sociale nel nostro Paese.

[2]  Si tratta di un aiuto straordinario introdotto dal Governo per far fronte al periodo di emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del coronavirus (COVID-19) e sostenere economicamente i cittadini. I buoni spesa vengono erogati direttamente dai Comuni italiani.

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