Piccole grandi storie

di Monica Palladino

Estratto dal Report ActionAid: Cresciuti troppo in fretta. Gli adolescenti e la povertà alimentare in Italia

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Ho lavorato per un periodo di sei mesi circa per ActionAid. Un progetto il cui obiettivo era comprendere come gli adolescenti vivono sulla propria pelle la povertà alimentare. Li ho incontrati, intervistati e mi sono emozionata con loro. Ho raccontato la ricerca in prima persona perché in prima persona ho vissuto questa intensa esperienza. Ho scelto tre storie estratte dal report "Cresciuti troppo in fretta"

I brevi racconti che seguono intendono dare uno spaccato di vita degli adolescenti che vivono in famiglie che soffrono di povertà alimentare e che o vivono o hanno vissuto in passato una situazione di disagio economico. Le tre storie che qui ho riportato sono di famiglie che si trovano in condizioni diverse. Nell’ordine di lettura: la prima è la storia di una famiglia che si rivolge tuttora al centro di assistenza alimentare, la seconda di una famiglia che non lo ha ancora mai fatto ma che vive di fatto una situazione di disagio economico, e la terza si riferisce a una delle 7 famiglie tra quelle intervistate che hanno usufruito del “pacco alimentare” in passato, ma che ora non lo fanno più.

Ogni storia è una storia a sé, e lo ho scelte perché ognuna è esemplificativa di uno o più aspetti legati all’obiettivo primario di questa ricerca. Tuttavia, c’è un filo comune che le lega e un senso nella sequenza con cui le presento.

La prima storia restituisce forse un’idea di cosa significhi vivere in una famiglia monoparentale e con un reddito basso, che si ritrova a non potere mai avere un “pasto regolare”, nonostante l’aiuto che riceve dal centro di assistenza. La seconda storia fa riflettere su come anche in una famiglia in cui entrambi i genitori lavorano, anche se soltanto uno dei due redditi è fisso mentre l’altro è precario, una giovane adolescente si possa ritrovare a doversi dare una serie di limiti, perché sa che la situazione economica della famiglia comunque non consente più di tanto. La terza storia, pur non essendo forse rappresentativa di tutte le famiglie che non fanno ricorso ai centri di assistenza alimentare, permette di capire come l’aver fatto esperienza di povertà alimentare possa “segnare” la vita di un adolescente in maniera permanente.

Il filo comune resta quello dell’indagare il modo in cui il disagio economico della famiglia, associato o meno alla possibilità di usufruire di aiuti alimentare, impatta le vite dei loro figli e figlie.

«Magari sì, vorrei tipo avere un pasto regolare, no?»

O. ha 15 anni e vive con sua madre in un quartiere periferico di case popolari. La madre, C. è originaria di un paese dell’Africa centrale e vive ormai in Italia dal 2006. Da poco tempo ha ottenuto la cittadinanza italiana, di cui va molto orgogliosa. Non ha avuto una vita facile, C., ma è una donna di straordinaria forza e coraggio e la sua è una storia di resistenza, dignità e riscatto sociale. Sì, perché ha fatto tanti lavori da quando è arrivata in Italia, come lei stessa dice con orgoglio: «Ho pulito le scale. Ho fatto tutto quello che mi offrivano, lo sai? … la vendemmia… è una storia che fa un po’ piangere, però alla fine, con la testa sempre alta». Si è data da fare nella vita e lavora tanto, tanto che O. pensa che la mamma lavori troppo e abbia pochi giorni di riposo, che, tra l’altro non le vengono pagati. Questo significa che spesso non c’è il tempo per loro due per stare veramente un po’ insieme, mi confida, magari per prendersi una vacanza, fare una gita. Grandi viaggi non se li possono certo permettere, il biglietto costa caro, motivo per cui, per esempio, C. va da sola al paese di origine quando deve, per assistere il padre malato che è rimasto lì. Come dice O.: «[…] sempre lavoro, lavoro, lavoro, lavoro, e questa cosa mi dà un po’ fastidio».

Il reddito mensile di casa non arriva a 800 euro, e non è abbastanza per comprare tutto quello che serve, soprattutto dal punto di vista alimentare. Per ovviare a questo, C. si è rivolta al centro di assistenza alimentare della sua zona ma chiaramente ciò non basta a garantire un’alimentazione adeguata né a sé stessa né alla giovane O., e non sempre riescono a integrare con una spesa al supermercato. Si arrangiano con quello che si trova nel pacco e C. con tutta la dignità che la contraddistingue, mi ha detto: «[…] Perché io non muoio di fame, perché, oggi qualcosa da mangiare, ce l'ho, i pacchi che qualche volta il centro mi dà, i buoni… mangio quello che c'è. Quando non c'è, io e la bimba mangiamo quello che… ci si inventa una cosa».

Vero, interpretando alla lettera quello che C. dice, non muoiono di fame ma è sufficiente? O. mi dice che se mangiano un primo a pranzo, devono necessariamente mangiare il secondo la sera, altrimenti a cena non avrebbero cosa mangiare. Mangiare un primo e un secondo nello stesso pasto è un lusso: «E quindi magari, sì vorrei tipo avere un pasto regolare, no? Come tutti…».

La sua colazione la fa a casa e poi alle 10:30 fa la merenda a scuola. Racconta che i suoi compagni hanno i soldi per comprare qualcosa al bar della scuola ma lei no. Il panino glielo prepara sempre la mamma: «Perché io non ho soldi» mi dice C. Con cinque euro riesce a comprare quello che serve per la merenda a scuola di O. dell’intera settimana. «Invece se tu hai cinque euro a scuola, lo stesso giorno finisce. Perché le salsicce quanto costano? Tu lo sai? Due euro e qualcosa, … se vuole prendere l’acqua a scuola è un euro e qualcosa. Viene quattro o cinque euro».

È una situazione oggettivamente difficile da gestire e procurarsi cibi fondamentali per una dieta adeguata (carne e pesce) non è sempre possibile.

Ma non è la scarsa qualità della dieta la cosa che pesa di più a O., in questa situazione. Sono le dimensioni sociali direttamente o indirettamente legate al cibo che risultano poco presenti nella sua vita. Nell’intervista lo ha descritto con grande chiarezza. Si è lasciata andare a momenti di commozione, pensando proprio alle cose che non può fare, perché non se lo possono permettere. Le sue normali esigenze di adolescente, come uscire con gli amici, il più delle volte sono mortificate, come dice anche la mamma: «Se ci sono i soldi per andare a mangiare al Mc Donald, in un ristorante, si va, se no lei resta a casa». E sono più le volte in cui resta a casa. Quindi, andare al ristorante rappresenta un vero e proprio miraggio. O. mi ha raccontato di esserci andata solo due volte negli ultimi anni, in occasione del compleanno di un’amica e il Natale precedente. C’è anche da aggiungere che vivere in un quartiere periferico di città non è il massimo, i mezzi pubblici sono limitati e la mamma, sebbene abbia la macchina, non può accompagnarla o andarla a prendere quando vorrebbe uscire, perché lavora tanto, anche nei fine settimana.

O. è una ragazza con le idee chiare e da me stimolata a fare una riflessione, in quanto giovane, su cosa avrebbe da dire alle Istituzioni, ci pensa il tempo necessario e mi risponde facendo riferimento alla scuola. «La prof. ci ha fatto studiare un giorno questo rapporto educativo, no? Che ci deve essere tra insegnante e alunno. Io sono sincera: a scuola nostra, c'è poco di questo rapporto educativo. Ma semplicemente per il fatto che i professori tendono sempre ad aspettare che l’alunno pianga, prima di chiedergli cosa ha! Io non ho mai pianto, quindi nessuno mi ha mai chiesto “come stai?” o “che cos'hai?”, però magari avrei tante cose da dire, ma non le dico».

È determinata O. e ha scelto la scuola da sé, andando forse contro l’aspettativa della madre che aveva in mente altro per lei. Ha i piedi per terra e immagina di lavorare sì un giorno, ma coltiva anche un sogno: fare la ballerina.

 «E quindi, senti che hai un limite»

G. è figlia unica e vive con entrambi i genitori. Ha 14 anni e frequenta una scuola che ha scelto lei stessa con molta convinzione. È una scuola che ha a fare con il suo progetto di vita professionale, cioè quello di ideare e creare.

Ho intervistato il papà, S., che fino a qualche anno fa aveva puntato su una piccola attività commerciale che conduceva in proprio. Era riuscito a portala avanti per un certo tempo, fra alti e bassi, fino a quando però la pandemia non gli ha dato il colpo di grazia. Ha dovuto chiuderla, portandosi sulle spalle anche l’onere di un prestito che aveva chiesto allo Stato per sostenere quella attività: «E tira tira tira, sinceramente di tirar giù la pelle io non avevo voglia, c’è sempre la speranza di dire: riparte, riparte… l'ultima poi è stato il Covid che ci ha ucciso». È tornato quindi al vecchio lavoro, quello che faceva prima che decidesse di intraprendere l’attività commerciale, che però oggi significa andarsi a guadagnare la giornata, con la conseguenza che il reddito diventa più incerto. La moglie lavora, ma complessivamente a fine mese si arriva ad avere un reddito che non supera 1200/1300 euro, poco meno della metà del quale se ne va per pagare le rate del prestito. Racconta S. che, venendo meno la stabilità economica, in certi momenti è intaccata anche la serenità familiare soprattutto quando i pensieri affollano la mente: «è brutale ma quando cominciano i pensieri, a non dormire la notte, dici: ”devo pagare qui, devo pagare lì, non ci sono i soldi per fare la spesa…” è come un tarlo che comincia a girarti in testa». Quindi vanno a risparmio con la spesa, scegliendo i supermercati dove è più facile trovare prodotti in offerta, per potersi permettere, almeno qualche volta, cose come, per esempio, il salmone. Quando capita, magari ne comprano qualche pezzo in più e lo mettono nel congelatore, decidendo però di mangiarlo non più di una volta a settimana: «Perché due volte diventa pesante, cioè costa di più». Con la carne, in genere la priorità è per la figlia G. Insomma, cercano di farsi bastare lo stipendio, senza chiedere aiuti alimentari, per il momento. È non è perché si vergogni, ma è anche un po’ una riflessione legata al fatto che S. pensa che c’è anche chi sta peggio e quindi ne ha forse più diritto.

G. è pienamente consapevole della situazione di disagio economico familiare, sa che i genitori cercano di non farle mancare niente, anche se poi non si riesce a fare tutto, e questo inevitabilmente condiziona la sua vita da adolescente. Ma lei cerca di non farlo pesare alla sua famiglia: «passo avanti, guardo oltre … dico ma sì non fa niente!». Durante l’intervista mi ha raccontato quali sono le sue rinunce rispetto ad aspetti materiali come, ad esempio, dover comprare un paio di scarpe nuovo solo quando si può, e non quando vorrebbe. Ma G. non è una ragazza che si perde d’animo e la cosa bella della chiacchierata con lei è stato vedere il suo atteggiamento positivo alla vita e la sua determinazione. G. mette da parte le sue mance per coltivare la sua più grande passione, perché sa che i genitori non potrebbero permetterselo.

Anche rispetto a dimensioni non materiali, come dover contare le volte in cui può uscire con gli amici – una/due volte al mese mi dice – lo sente in parte come un limite: «Non è che non ti senti come gli altri però senti che hai un limite, e poi ti dici vabbè dai non è sempre così, magari dopo cambia e quindi vai avanti». La sua vita sociale con i suoi coetanei un po’ ne risente ma lei non ci rinuncia. Ha un’alternativa, che è quella di vedersi a casa e magari preparare un piatto di pasta con gli amici. È un po’ anche l’atteggiamento di suo papà che ha la sua coping strategy come, ad esempio, invece di andare fuori al ristorante, ordinare qualcosa da mangiare una volta al mese e vedersi a casa con gli amici, dividendo la spesa di quello che si è ordinato. Succede soprattutto con il sushi che a G. piace molto. È un modo per non rinunciare alla socialità ed è sicuramente importante.

«Avevo paura che mi giudicassero»

Un po’ a metà tra i ricordi di un tempo passato e la vita attuale, l’intervista con S. racconta di una storia che nasce come una storia difficile, che passa anche dall’essersi trovata insieme alla sua famiglia in condizioni di disagio economico tale da avere avuto bisogno di fare riferimento al centro di assistenza alimentare per un po’ di tempo, come mi ha raccontato la mamma G.: «avevo chiesto l'assistenza alimentare perché questa cosa mi ha aiutato anche tantissimo devo dire perché comunque io lavoravo però dovevo pagare l'affitto, luce, gas, tante altre cose. Il [centro] mi dava una mano con il secco, per dire olio, riso, tutte queste cose per me erano già tanto perché non usavo i soldi per prendere quelle cose che già avevo». Ma è arrivato poi un momento in cui G., sentendosi un po’ più stabile dal punto di vista economico, non ha più chiesto l’aiuto alimentare. Sentiva di non averne più bisogno. Oggi la condizione di vita della famiglia di S. è migliorata e in questo, la sua storia racconta di una bella trasformazione che ha coinvolto tutti, a partire dalla mamma.

S. è nata 16 anni fa in un paese del sud America, aveva 1 anno quando è arrivata in Italia con entrambi i genitori, con l’idea di avere migliori opportunità di vita rispetto al paese dove vivevano. Il sogno era: «migliorare il nostro futuro», racconta la mamma G. Non è stato così, almeno nell’immediato, vicende personali anche molto delicate hanno cambiato la prospettiva di vita di tutta la sua famiglia. G. si è ritrovata, ad un certo punto, mamma sola di tre figlie femmine e S. è la più piccola. Tra enormi difficoltà ha dovuto fare tutta una serie di cose da sola, pensare a sé stessa e alle sue figlie, riuscendo anche a tenere salda la sua passione, il cucito, che oggi è diventata la sua professione. Ha studiato e fatto sacrifici G., ma ne è valsa la pena mi ha detto. Il suo reddito mensile oggi si colloca nella fascia compresa tra i 1200 e i 1600 euro, ed è riuscita a comprare una casa.

Anche la storia di G., come quella di C. vista in precedenza, restituisce bene l’immagine di una donna, forte e determinata, segnata forse da quello che ha vissuto, ma con la schiena sempre dritta.

Ripercorrendo con S. i ricordi di un tempo più difficile, che per quanto fosse piccola – mi racconta che frequentava le scuole elementari – ricorda bene le sensazioni che provava: «[…] eravamo alle elementari quindi molto tempo fa venivamo appunto qua dove adesso aiutiamo, a prendere il cibo che ci offriva [il centro] per abbastanza un lungo periodo […] Essendo piccola, sentivo un po’ di disagio perché tutti i tuoi compagni di classe riuscivano a fare la spesa così e io e io venivo qua dovevo farla qui la spesa. Molto raramente andavamo al supermercato, e quindi avevo paura di essere giudicata, perché non riuscivo appunto… non riuscivo ad andare a fare la spesa. E quindi molto spesso mi imbarazzava anche, venire qua perché non volevo che gli altri mi vedessero…
R: E ti è capitato di incontrare persone che conoscevi…
I: Sì, in realtà era… sì in realtà sì perché diciamo che i bambini sono un po’… avevo paura che mi giudicassero»
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E a quella età S., come anche le sue sorelle, sapeva bene in che situazione si trovassero, che certe cose non potevano permettersele e, piccola com’era, capiva che la mamma di più non poteva fare perché era, appunto da sola, ed aveva tre figlie a cui pensare. Le privazioni erano tante e le uscite limitate come racconta la mamma: «All'inizio non era così, cioè avevano tante privazioni, ci privavamo di tutte queste cose. Però magari una volta al mese dicevo: andiamo a fare andiamo a fare la colazione al bar… per loro era chissà che cosa. Le portavo una volta al mese […] perché adesso che hanno la possibilità di chiedere fare, tante volte ci pensano due volte». Come se l’esperienza vissuta fosse rimasta addosso e in qualche modo “condiziona” le scelte attuali. Rispetto a questo, trovo conferma nelle parole di S. che dice di non chiedere più di quanto non le viene dato. Ha una paghetta con cui gestisce le sue uscite e se non ha i soldi, con gli amici non esce.

La storia di S., che qui ho voluto riportare, mi fa riflettere sul fatto che il racconto di quello che è stato, dal punto di vista emotivo, è molto denso, le emozioni sono descritte nettamente. S. mette insieme vergogna, imbarazzo, paura di essere giudicata, risposte emozionali che mi ha raccontato senza timore, proprio perché forse, parte di un passato lontano.


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