La trasversalità di Ernesto de Martino
di Monica Palladino
Foto reperita qui, scattata da Franco Pinna a Bella (Potenza) il 10 luglio 1959
Ho scritto questo testo in occasione dell'invito e dell'incontro organizzato da Pasquale Iorio, per presentare "Conoscere per trasformare. La ricerca di Ernesto de Martino" curato da Andreas Iacarella e Sonia Marzetti, nell'ambito del programma di attività e incontri del progetto Biblioteca Bene Comune, a Caserta. È sempre una bella opportunità poter parlare di Ernesto de Martino, uno studioso direi trasversale anche a discipline diverse dall’antropologia.
Premetto che non sono una
studiosa di Ernesto De Martino, ma potrei definirmi un’appassionata. L’ho
incontrato nel corso delle mie letture e studi che hanno fatto seguito a un
interesse nuovo e a una proposizione di ricerca diversa. Ovvero, quella dell’importanza
dell’incontro con l’altro nel contesto di un’indagine scientifica e più
propriamente, per quel che mi riguarda, nell’ambito dell’economia e politica
agraria, dello sviluppo locale e, ad oggi, dei temi dell’insicurezza alimentare.
A prescindere dalla mia formazione di partenza, ho approfondito l’aspetto
qualitativo della ricerca e nel mio incontro con l’altro, questi ne diventa il
soggetto e non l’oggetto di ricerca. Ma non sono io dirlo, è un aspetto comune
e cardine, direi, sia della ricerca qualitativa che di quella antropologica. In
merito a ciò, De Martino era un fermo oppositore dello scientismo in campo
umanistico. Lo si evince dalle prime righe contenute nell’introduzione a La Terra del Rimorso che cito:
«Un tempo – nell’epoca dell’etnografia positivista –
chi si accingeva a scrivere un rapporto etnografico metteva una cura
particolare nel celare al pubblico le proprie passioni, voglio dire quelle
passioni che lo avevano spinto a diventare etnografo, a intraprendere quel
particolare viaggio e a scegliere come oggetto di ricerca quel particolare
fenomeno etnografico. Vero è che, negli etnografi dell’epoca
positivista, il mondo delle passioni era spesso così miserabile […] da
giustificare largamente l’omissione: in effetti le loro memorie e i loro
rapporti potevano senza danno essere letti dimenticando completamente, come quantità
trascurabile, la figura e la persona del «ricercatore sul campo» (de Martino
2002 [1961], p.39).
Quello che mancava all’epoca era l'aspetto puramente umano dell’antropologo che, invece, sembrava muoversi sul campo come una macchina che registrava dei dati. Prevaleva l’idea che qualunque persona, se dotata di particolari strumenti e con determinati obiettivi, potesse svolgere attività di indagine sul campo; c'era quasi una cura maniacale affinché la personalità dell’etnografo non solo non influisse ma non dovesse condizionare la scientificità razionalista della indagine. Secondo tale logica, non c’era spazio per i sentimenti e per il vissuto del ricercatore sul campo. Questo serviva a connotare la ricerca di oggettività e quindi, di scientificità. Ed era questo il pensare comune e anche la prassi della ricerca antropologica, da quando l'antropologia è stata istituzionalizzata come disciplina nel 1872. Nonostante la svolta riflessiva e interpretativa rivoluzionerà poi la disciplina a partire dagli anni Settanta, De Martino aveva largamente anticipato già vent’anni prima questo nuovo approccio. Per questo motivo - ho letto - ha sofferto di un «certo snobismo in ambito accademico» in quanto, a detta di Amalia Signorelli, spodestava quella che era una certezza di allora: la capacità di condurre in ambito umanistico ricerche "oggettive" e quindi senza pregiudizi culturali (vedi Lipori, 2015). Nelle parole lette nell’introduzione a La terra del rimorso e riferite all’oggettività, de Martino scrive:
«[L]’oggettività
per l’etnografo non consiste nel fingersi sin dall’inizio della ricerca al
riparo da qualsiasi passione […], ma si fonda nell’impegno di legare il proprio
viaggio all’esplicito riconoscimento di una passione attuale» (de Martino 2002
[1961], p. 40).
De Martino inizia il suo
viaggio etnografico come un viaggio in cui le osservazioni di chi fa la ricerca non nascono con un atteggiamento di superiorità, ma con la percezione di andare oltre ciò che si vede, per cercare di spiegare la sofferenza che porta alla marginalità. In
un documento pubblicato sulla rivista Rinnovamento d’Italia nel 1952 e
riferendosi a quei contadini da sempre considerati ignoranti se non bestie, ne
mette in luce invece la dignità e la voglia di riscatto sociale:
«[…] La società li aveva lasciati nella miseria, aveva negato loro i due potenti mezzi tecnici della cultura, il saper leggere e scrivere, ma essi, come persone intere, non si erano mai rassegnati a recitare nel mondo la parte degli incolti, e sotto la spinta dei momenti critici dell’esistenza, la nascita, il cibo, la fatica, l’amore e la morte, avevano costruito un sistema di risposte, cioè una vita culturale, formando così, di fronte alla tradizione scritta della cultura egemonica, la tradizione orale del loro sapere […]» (De Martino, 1952 in Dei e Fanelli, 2015 p.164) .
E questo andare oltre, fatto di
passione e di coinvolgimento nel lavoro di campo lo sapevano bene anche le donne
che hanno lavorato con de Martino, che hanno fatto dell’incontro e del rapporto
con l’altro un aspetto importantissimo della loro ricerca. Mi riferisco, in
particolare, a Vittoria de Palma, compagna di de Martino, a Clara Gallini e ad
Amalia Signorelli. E proprio Amalia Signorelli dice che il lavoro sul campo rappresenta
una sfida intellettuale impegnativa per l'antropologo, che de Martino definisce «paradosso dell’incontro etnografico». E cito ancora:
«[...] quando l'antropologo si accinge a studiare una cultura aliena (è l'aggettivo che de Martino usa), gli si consiglia, anzi gli si raccomanda, di osservarla senza preconcetti, sospendendo il proprio giudizio di fatto e di valore. Ma - è questo il paradosso - nel momento stesso in cui compie anche la più piccola e breve osservazione, l'antropologo deve in qualche modo dare un nome a ciò che osserva, classificarlo, includerlo in una categoria. Se non lo facesse, perderebbe il contenuto stesso dell'osservazione che non arriverebbe mai alla soglia della sua stessa consapevolezza: sarebbero tutte esperienze ascrivibili all'area del guardare senza veramente vedere, udire senza ascoltare, stare negli eventi, nelle relazioni, in una parola nel mondo, come se non ci si stesse. [...]» (Signorelli, 2011 [2007] p. 258).
Un paradosso o «scandalo» che, secondo
l’antropologo, può essere mitigato solo praticando l’etnocentrismo
critico, ovvero: «la consapevolezza che è impossibile, velleitario e
sterile pretendere di uscire dalla cultura che ci appartiene per entrare nella
cultura altrui e farla nostra» (Signorelli, 2015, p. X). Quindi, aggiungo, se
vogliamo comprenderla possiamo farlo solo grazie al confronto continuo tra il
loro e il nostro modo di pensare, mettendo in crisi, ogni volta che è
necessario, anche la nostra stessa visione del mondo. Non è impresa facile ma
la provocazione è forte abbastanza da costringere a ripensare all’identità del
ricercatore, che deve essere sempre presente senza mai identificarsi con
l’altro, altrimenti rischia il fallimento della conoscenza di ciò che vuole
indagare. E per essere presente, deve mettersi in rapporto. Ecco, questi
aspetti originali della ricerca di Ernesto de Martino, mi hanno fatto riflettere oggi sul mio
lavoro e sull’identità del ricercatore più in generale, a come dovrebbe porsi
sul campo in rapporto ai suoi interlocutori.
L’originalità della metodologia, a
cui è doveroso guardare con tutto rispetto, si palesa inoltre nella formazione di un’equipe multidisciplinare, che lo vede affiancato nella spedizione in
Salento a osservare il fenomeno del tarantismo, da Giovanni Jervis (psichiatra),
L. Jervis-Comba (psicologa), Amalia Signorelli (antropologa culturale), Diego
Carpitella (etnomusicologo), Franco Pinna (fotografo) e da Sergio Bettini (parassitologo). All’equipe si aggiunse Vittoria De
Palma, che oltre ad essere un’assistente sociale, era anche una donna “del
posto”, che comprendeva il loro parlare in dialetto, e che ha facilitato
enormemente l’entrare nel rapporto con le persone studiate da parte degli
studiosi, in maniera da concepirle non solo come documento storico, ma come
persone vive (v. appendice V, de Martino 2002, [1961]).
Per via delle diverse discipline in campo, il lavoro preparatorio del gruppo
è consistito principalmente nel colmare il divario tra l'approccio umanistico e
quello scientifico, coinvolgendo ogni partecipante che in tal modo apportava la
propria conoscenza senza essere per questo chiuso nei confronti dei colleghi. Il
tarantismo, ci si chiede, è malattia (come si era creduto fino ad allora) o
fenomeno storico-religioso? Fu durante l'età dell'Illuminismo che si fece
strada e si consolidò l’idea del tarantismo come malattia, che poteva essere
essenzialmente un'intossicazione provocata dal morso di un ragno velenoso, o un
disturbo psichico, o una combinazione di entrambe le cose. Dunque, l’ipotesi
del tarantismo come malattia rimaneva la prima cosa da esaminare. Una volta
esaminata e messa in discussione da evidenze sul campo (grazie alla
collaborazione del medico parassitologo), la nuova ipotesi della ricerca diventa: “tarantismo
come fenomeno culturale, da ricomprendere in una valutazione storico-religiosa”.
Ecco, in questo de Martino mi restituisce
l’immagine di uno studioso libero, che va oltre quello che aveva costituito per
secoli la spiegazione medica del fenomeno, che poneva però evidentemente un
limite interpretativo. Ma questo atteggiamento non è nuovo nel nostro studioso,
basti pensare anche a come e perché prende le distanze da Benedetto Croce e Martin Heidegger.
Il metodo antropologico di de Martino,
a mio avviso, insegna oltre la stessa antropologia ed è il motivo per cui penso
ci si possa ispirare al suo metodo di ricerca, senza per questo essere
antropologi e si tratta di riportare l’interesse verso l’umano anche in altri ambiti
di ricerca, come il mio. Se penso alle parole: rurale, agricoltura… il mio
pensiero non va ai mezzi di produzione bensì alle comunità, alle persone che ne
fanno parte. E io, ho avuto modo di incontrarne qualcuno, pescatori, produttori
artigianali, rispetto ai quali mi sono messa in ascolto. Noi ricercatori,
parliamo di sviluppo locale e promozione dello sviluppo ma come intendiamo
farci portavoce delle loro istanze? Penso sempre alle parole di un pescatore
che mi disse con un po' di delusione nella voce, riferendosi alle stesse agenzie di sviluppo del territorio, “se
vuoi promuovere lo sviluppo, nei territori ci devi andare, con le persone ci
devi parlare”. Fa indubbiamente riflettere!
Si tratta di un approccio poi non
così sconosciuto nell’ambito dell’economia e politica agraria, ma di cui forse
oggi si sono perse le tracce. Parlo di Manlio Rossi-Doria e Rocco Scotellaro e di
un interesse vivo e umano verso la cultura contadina, testimoniato da numerosi
incontri fra Scotellaro e lo stesso De Martino e indirettamente, aggiungo,
anche con Rossi-Doria. In una lettera datata 1952 (Vitelli, 1989), Scotellaro chiede
a de Martino di indicargli una
bibliografia di riferimento di storia e etnologia a corredo informativo di chi,
come lui, volesse interessarsi di sociologia. A Portici, per stessa volontà di
Manlio Rossi-Doria, che aveva dato vita nel ‘59 al Centro di specializzazione
e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno, era stata creata una sezione
di sociologia rurale. Nelle intenzioni di Rossi-Doria c’era quella, si direbbe, di promuovere
un nuovo e felice dialogo tra diversi campi del sapere come ad esempio l’agronomia,
l’economia, l’urbanistica, la sociologia.
In conclusione, e forse qui vorrei sottolineare la potente trasversalità di Ernesto de Martino, sebbene nel linguaggio antropologico il termine ricerca sul campo caratterizzi il metodo etnografico, ovvero recarsi sul luogo, vivere nel e il luogo stesso, imparare la lingua (se serve), anche chi, in discipline altre incontra l’altro, fa a mio avviso il “suo campo” ovvero un contesto in cui avviene l’incontro con lo sconosciuto/i (siano essi singoli o comunità) e di cui si voglia invece, far conoscere la storia, perché diventi istanza da rappresentare alle istituzioni. E proprio lì, penso ci sia un nucleo importante che vale per tutti coloro che in qualche modo lavorano sul campo, senza per questo essere antropologi. Dice Rossi-Doria: “bisogna sporcarsi le scarpe” e allora sì che i territori li conosceremo e le persone le incontreremo, e per dirla con le parole dello stesso De Martino, per poter “dare loro voce e diventarne la voce”.
Bibliografia
Dei F., Fanelli A. (2015), (a cura di), il cantiere di Sud e Magia, Donzelli Editore
Lipori M. (2015), «Ernesto De Martino» di Amalia Signorelli, https://confronti.net/2015/11/de-martino-teoria-antropologica-e-metodologia-della-ricerca/
de Martino E. (2002 [1961]), La
terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del
Sud, Il Saggiatore, Milano.
Signorelli A. (2011 [2007]), Antropologia
culturale, McGraw-Hill, Milano.
Signorelli A. (2015), Ernesto de Martino. Teoria
antropologica e metodologia della ricerca, L’Asino doro edizioni, Roma.
Vitelli F., (1989), L’osservazione
partecipata. Scritti tra letteratura e antropologia, Edisud, Salerno.
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